I Promessi coni

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La punta del cono

Autore: Antonio Alleva

Nel blu dipinto di blu. O Volare. Due titoli per la stessa canzone, la più ascoltata di sempre, dicono. Tanto che ancora ne senti l’eco come fosse un timbro nell’aria. Poi il presentatore completava l’annuncio, con quel tono squillante, in crescendo, diceva: Nel blu dipinto di blu, di Migliacci - Modugno, dirige il Sestetto Azzurro il maestro Alberto Semprini, canta… Domenico Modugno! Era agli esordi allora il grande Mimmo nazionale. Eravamo alla fine degli anni Cinquanta, agli albori della Tv. Ho rivisto quel Festival di Sanremo poche sere fa, a Techetechetè. Pochi anni dopo, agli inizi dei Sessanta, anch’io guardavo Modugno in Tv, avevo sei anni. Lo guardavo nei primi televisori in bianco e nero, quelli con la mantellina a fiori cucita a mano dalle nostre mamme, aperta a tendine sul davanti. Serviva a preservare dalla polvere il magico, nuovissimo gioiello della tecnica, mentre l’abat-jour che gli campeggiava sopra assolveva al compito di schermare gli occhi, di proteggerli dai rapidi cambi di luminosità dello schermo. Può far male alla vista, ci dicevano i grandi. Sarei tentato di dilungarmi su quegli anni, su quell’allegria gonfia di speranza, sulla fregola che la sera pervadeva i nostri paesi, soprattutto il lunedì e il sabato, quando dopocena ci si radunava a capannelli nelle sale da pranzo Chippendale dei vicini più abbienti, che già possedevano il televisore. Il lunedì sera c’era il film. Il sabato il varietà. Chi poteva immaginare che di lì a poco Domenico Modugno sarebbe uscito dallo schermo per venire a cantare da noi, dal vivo, in carne e ossa, nella piazza tra il Duomo e l’antico Palazzo del Comune? Il cuore mi batteva forte, e – lo confesso – un po’ batte pure adesso. Accadde un sabato sera d’agosto, se ben ricordo nel 1964. Pë quanda gende cë scteve, loche a la piazze ‘ngë së puteve jëttà nu zocche dë sale! (In piazza c’era così tanta gente che non c’era spazio nemmeno per un chicco di sale!). Fu il mantra che accompagnò per mesi i commenti su quell’evento indimenticabile. In quella serata si incrociarono e si fusero due apici: il campione della musica leggera italiana e la bontà, il profumo della porchetta italica, cotta nei forni a legna e preparata secondo i crismi dell’originale ricetta del Cinquecento. Nell’attesa che Modugno cominciasse a cantare, si fremeva tutti insieme sotto quel cielo così zeppo di stelle che non c’era spazio nemmeno per un chicco di sale. Stava per succedere quel nonsoché che provoca un giulivo soqquadro, un profondo respiro di spaesata magia. Però io il palco non lo vedevo. Gli adulti tutt’intorno premevano e schiamazzavano, intonavano ripetutamente il coro: DO-ME-NI-CO! DO-ME-NI-CO! Vedevo solo una folla di gambe, calzoncini e canotte, ma – benché non vedessi nient’altro – anche i miei sandali stentavano a stare fermi. DO-ME-NI-CO! DO-ME-NI-CO! «Non vedo niente!» sbottai verso mio cugino, più grande di me, incaricato di accudirmi. «Vieni su» mi disse, «ti prendo in braccio e te lo faccio vedere, si sta cambiando nella sede della Pro Loco». Accipicchia, era proprio lui! Capelli riccioluti e baffi corvini, aitante, stava indossando la stessa camicia di quando in Tv recitava Scaramouche, la camicia con i pizzi del colletto lunghi e puntuti e le maniche a sbuffo. Chi poteva immaginare che quarant’anni dopo avrei assistito all’inaugurazione della grande statua a lui dedicata a Polignano a Mare, suo paese natale, in Puglia, statua in cui Modugno canta a braccia spalancate verso l’acqua dell’Adriatico, verso l’Albania? L’attesa si faceva sempre più fremente, come le code davanti ai profumi della porchetta calda e delle noccioline americane tostate nelle bancarelle. «Vuoi un gelato?» chiese mio cugino. «Certo!» risposi esultante. «Che gusti?» «Banana e pistacchio!» Gioia si sommava a gioia. Adesso anche le papille fremevano. Mio cugino si fece largo a fatica, ci volle un po’ prima che raggiungesse il carrettino dei gelati di Amilcare, pochi metri più in là sotto il loggiato del Comune. Amilcare. Sarei tentato di dilungarmi sul suo personaggio: gelataio in estate, col suo carrettino a quattro cilindri d’alluminio e quattro coperchi col pomello, quattro gusti, crema cioccolato banana e pistacchio, caldarrostaio in autunno, d’inverno venditore di semi lupini e noccioline nel piccolo cinema del paese, con la cassettina a tracolla, e infine banditore con la cornetta d’ottone per l’arrivo settimanale del pescivendolo. «Ecco il cono» disse mio cugino, «non farlo sgocciolare.» Adesso si avvertiva un silenzio sospeso. «Dài, vieni su, ti reggo a cavalcioni sulle spalle. Modugno sta per cominciare a cantare.» Immaginate il tripudio! Quel bel cono con due montagnole verdepistacchio e giallobanana, quei sapori che mi facevano impazzire. Partii in quarta con i morsi, poi rallentai di colpo. Desideravo che quel momento non finisse mai. Compreso il concerto di Scaramouche. Dalla cima delle spalle di mio cugino vedevo meglio di tutti: la piazza stracolma, Modugno che usciva dalla Pro Loco e saliva sul palco con un salto atletico. Salutò con un grido d’allegria, DO-ME-NI-CO!, la folla rispose con un potente coro. Chiusi gli occhi, mentre la musica partiva, l’emozione era fortissima. Anzi, due emozioni: le labbra che adesso assaporavano il gelato piano piano, con la lingua che girava veloce intorno al cono per prevenire lo sgocciolìo, e Modugno che allargava le braccia e mandava in cielo gli acuti di Volare, nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù. Come resistere a quei battiti accelerati e misteriosi, a quel sudore che mi colava dappertutto, a quel sentirmi in cima al mondo sulle spalle di mio cugino? In quel preciso istante le papille captarono l’inconfondibile retrogusto di cannella che rendeva speciale la cialda di Amilcare. Rallentavo, rallentavo più che potevo, leccavo in girotondo come fa la terra con il sole. E ricordo benissimo cosa accadde nel sottofinale della canzone: ruppi con i denti la punta del cono, chiusi di nuovo gli occhi e – all’unisono con l’acuto di Domenico – aspirai tutta la felicità in quell’ultimo succhio di banana e pistacchio.

 

Quanto tempo è trascorso. Una volta, durante una sosta prima di un nuovo lancio, mio cugino mi chiese se provavo nostalgia. No no, figuriamoci. La nostalgia era un sentimento primario nella precedente condizione umana, un sentire dolce, struggente, dolente, irrimediabile. Dolore del ritorno. «Prego, Antonio, il cono è pronto.» Pistacchio e banana, cono con retrogusto di cannella. Sophia me lo porge, con i suoi modi aggraziati, premendo il sensore che regola la posizione della poltrona relax-meditazione, pausa prevista per quest’ora dalla missione spaziale. Nelle cuffie salgono le note di The serpent’s egg dei Dead can dance. Ho davanti migliaia di stelle, in giù albe e tramonti, affondo le labbra a piccoli morsi, poi rallento e lecco in girotondo. Com’era solita fare la terra con il sole. Sophia è la mia assistente, replicante di ultima generazione. Le fu modello Audrey Hepburn: guance di porcellana, zigomi alti, occhi che riflettono la luce in un’ampia gamma di cromìe, è intelligente gentile compassionevole. Sa tutto di Domenico Modugno, di mio cugino, di Amilcare e di quella serata lontana. Canta benissimo Nel blu dipinto di blu e suona a meraviglia le cornamuse digitali di Tannhäuser. Poi ce la facemmo ad abbrancare quell’umanesimo nuovo. Dopo altre guerre, altri orrori, altri strazi.

Poi ce la facemmo a celebrare il matrimonio tra la màdia, la condizione umana, le limitate risorse del pianeta, i robot e le stazioni aerospaziali. Qui tutto ritorna, nitido. Ma è sempre un ritorno nuovo. E rompo ogni sera la punta del cono.

 

Antonio Alleva è nato a Nocella di Campli (TE) il 9 ottobre 1956 e attualmente vive a Giulianova. Ha pubblicato Le farfalle di Bartleby (Tracce 1998, Camaiore Proposta 1999), Reportages dal villaggio in 7 poeti del Premio Montale 2000 (Crocetti 2001), La tana e il microfono (Joker 2006), Ultime corrispondenze dal villaggio (Il Ponte del Sale 2016). È presente in antologie, riviste, volumi collettivi, tra cui Ombre come cosa salda. Il purgatorio letto dai poeti Canti I-IX (Il Ponte del Sale 2009). Nel 2014, sempre per Il Ponte del Sale, ha curato insieme a Patrizia Vernisi il volume postumo di Raymond André, Rue des étrangers. È stato vincitore o finalista dei seguenti premi: Camaiore, Montale, Diego Valeri, Dario Bellezza, Astrolabio, S.Egidio, Poesia Onesta, Civitaquana, Di Liegro, Civetta di Minerva.

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